Dalle navi da crociera alle scarpe ai mobili, i prodotti italiani sono sinonimo di qualità. Potrebbe sembrare un luogo comune ma è un fatto confermato: tra il 2002 e il 2017 (ultimi dati disponibili) il valore medio unitario dell’export italiano (valore medio per tonnellata) è cresciuto del 54%, molto più di quello degli altri grandi Paesi Ue (UK +40%, Germania +21%, Francia +17%, Spagna +13%).

La qualità del made in Italy investe ovviamente anche la produzione conto terzi, elemento strutturale della nostra economia. Se ad oggi non esistono confronti internazionali che ci descrivano il ruolo del conto terzi nelle economie dei diversi Paesi, alcuni fatti possono essere d’aiuto. L’Italia è il primo Paese europeo per produzione farmaceutica conto terzi. Guardando ad un’altra filiera, l’Italia è il primo produttore mondiale di make up, quasi tutto conto terzi. Due primati che delineano il posizionamento internazionale del terzismo made in Italy.

Fondazione Symbola e Famindustria hanno indagato con interviste e approfondimenti statistici – il primo studio sul totale del conto terzi italiano – questa attitudine trasversale alle filiere del made in Italy.

Nel nostro Paese sono 108 mila le imprese della manifattura (il 27% del totale) che hanno prodotto almeno una volta conto terzi (ultimi dati disponibili, 2016), per un fatturato relativo a questi prodotti pari a 56 miliardi di euro (il 6,3% del fatturato totale della manifattura).

La quota di fatturato conto terzi sul totale del fatturato varia da settore a settore: si passa dal 13,3% dell’abbigliamento al 9,6% dell’automazione al 6,4 della farmaceutica al 6% dell’arredamento fino all’1,3 % dell’alimentare.

Diverso ovviamente il peso delle specifiche filiere sul totale del fatturato italiano conto terzi: predomina l’automazione (43,5% del totale), seguita da abbigliamento (8,2%), arredamento (5,4%), alimentare (3%) e farmaceutica (2,9%) (l’altro 27% è legato a comparti con quote minori, come gomma, plastica, elettronica, prodotti petroliferi, …).

La diversità delle filiere si riflette anche nella diversa dimensione delle imprese terziste: mentre nel resto del manifatturiero predominano piccole e medie imprese (sotto i 50 addetti) nella farmaceutica la maggioranza sono le imprese con oltre 250 addetti.

Se questo è il panorama italiano delle imprese che anche una sola volta l’anno hanno lavorato conto terzi, per una descrizione più puntuale del fenomeno si è scelto di osservare le imprese per le quali il fatturato conto terzi è maggiore del 50% del fatturato totale (in cui, cioè, il conto terzi è prevalente).

In questo specifico perimetro rientrano 69 mila imprese – il 64% del totale dei terzisti –, 455 mila addetti e un fatturato conto terzi pari a 47 miliardi di euro. Queste imprese investono in macchinari (dal 3% del fatturato come l’alimentare, al 3,7% dell’arredamento fino al 4,3% della Farmaceutica) e in formazione (nella meccanica, ad esempio, 270 euro l’anno per addetto; nella farmaceutica 413; ma anche nell’alimentare: 78 euro).

Ed esportano: il 12% del fatturato nel caso dell’alimentare, il 14% dell’abbigliamento, il 15% dell’arredamento, il 17,5% della meccanica per arrivare al 67,6% della farmaceutica. Sono dati che descrivono un conto terzi in parte diverso dalla vulgata: meno esecutore puro e più co-protagonista nella messa a punto del prodotto, un vero partner del committente.

Aspetti confermati dall’indagine qualitativa di Fondazione Symbola e Farmindustria: trenta interviste a rappresentanti di categoria e imprese (sia conto terzi che committenti) di cinque filiere del made in Italy (abbigliamento, agroalimentare, arredo, automotive, farmaceutica). Le interviste hanno evidenziato, pur nella diversità delle filiere, una serie di caratteristiche che descrivono i punti di forza del terzismo italiano:

1. Eccellenza produttiva, flessibilità e affidabilità. Si viene in Italia per far produrre i propri prodotti perché l’Italia evoca e garantisce capacità produttiva eccellente, professionalità, qualità, e anche flessibilità e creatività. Se sono in ballo le economie di scala, le commodities, l’Italia non può competere con altri Paesi. Ma quando si parla di qualità, competenze, affidabilità, innovazione, servizi e assistenza al committente allora siamo molto competitivi.

2. Il fattore umano. In tutto il made in Italy il fattore umano è un elemento decisivo. Da questo dipendono la qualità produttiva, la capacità di innovare, di affrontare la complessità (che sia quella di un capo spalla per un abito o quella di una macchina per confezionare farmaci) e risolvere i problemi.

3. L’importanza del territorio. Tra i punti di forza del made in Italy in generale e del nostro terzismo in particolare vanno annoverati il fitto tessuto produttivo nazionale (non solo nei distretti) e la rete di relazioni che lo innerva. Relazioni che contribuiscono a garantire flessibilità produttiva e in cui le imprese possono trovare competenze che le rendono più competitive: con altri soggetti imprenditoriali (con importanti vantaggi nella competitività anche economica) ma anche con la rete universitaria e associativa.

4. Tecnologia e impianti. L’eccellenza produttiva del made in Italy, oltre al saper fare, è legata ovviamente – a livelli diversi nei vari settori produttivi – alle tecnologie impiegate. La qualità delle produzioni, la flessibilità che si riesce a garantire, l’efficienza dei processi, la sostenibilità ambientale sono legati anche al grado di affidabilità e di innovazione dei macchinari e degli impianti utilizzati.

5. Sostenibilità ambientale. Oltre che importante fattore di efficienza, la sostenibilità ambientale è una richiesta del consumatore e del committente. Le scelte ambientali rendono più competitiva l’offerta dei terzisti.

6. Servizi, fino al pacchetto completo. La tendenza delle imprese committenti a concentrarsi su ideazione, design, innovazione, progettazione e poi su marketing, distribuzione e vendita le spinge a ricercare terzisti in grado di offrire una elevata preparazione tecnica e produttiva, di realizzare lavorazioni complesse, pacchetti completi con importanti componenti di servizio (arrivando alle campagne di comunicazione o al customer service e addirittura fino alla progettazione). Sempre più i committenti cercano relazioni con un solo soggetto che gestisca la rete di sub-fornitori: il terzista assume in questi casi un ruolo di ‘responsabile e garante’ della sub-fornitura.

7. Il valore delle certificazioni. Le imprese contoterziste scelgono le certificazioni come valore aggiunto da offrire al committente, che in questo modo se ne potrà fregiare agli occhi del cliente finale, o potrà utilizzarle per arrivare a nuovi mercati. Le offrono come garanzia della qualità della produzione e come indicatore di trasparenza dei processi.

8. L’innovazione risale la filiera. Generalmente si ritiene che il grado di innovazione di un prodotto dipenda esclusivamente dalle scelte e dagli investimenti del committente. Non sono rari i casi in cui, invece, è il terzista che – con la sua esperienza, le sue competenze e con gli investimenti in R&S – ottiene innovazioni che poi vengono proposte al committente e che, in questo modo, al prodotto.

9. Integrazione della filiera. Tra i fattori di sviluppo delle imprese del terzismo (come delle imprese in genere) si osserva l’integrazione della filiera che può essere verticale (fasi produttive successive) o orizzontale (prodotti e processi affini alla filiera tecnologico-produttiva già esistente). Un passaggio che aggiunge know-how e consente maggiori efficienze produttive e, ovviamente, anche economiche.

10. Conto terzi, una specializzazione. I terzisti, contrariamente a quanto si possa immaginare, non hanno tutti l’ambizione di affiancare alla produzione conto terzi quella conto proprio. Stare sul mercato col proprio brand vuol dire avere competenze che il terzista non ha, e che spesso non vuole avere: procurarsele vorrebbe dire sfocare la specializzazione che lo rende apprezzato sul mercato, vorrebbe dire disperdere le energie col rischio di indebolire i propri punti di forza.