Sbloccare i progetti e i cantieri già finanziati favorirebbe la ripresa economica, aumenterebbe l’offerta di trasporto e l’occupazione. Completare il Sistema nazionale integrato dei trasporti nei tempi previsti contribuirebbe a incrementare il Pil del 2,5% creando complessivamente 300mila posti di lavoro all’anno. Le risorse ci sono, ma non vengono spese: nel 2018 il 60% dei fondi stanziati per le infrastrutture non è stato utilizzato ed è rimasto nelle casse dello Stato.
Intanto l’Italia dei trasporti fa meglio della media europea per la riduzione degli inquinanti. In circa 30 anni il settore ha ridotto le emissioni di GHG (responsabili dell’effetto serra) del 2,7% contro un aumento medio nell’eurozona di quasi il 15%. Meglio ancora hanno fatto i veicoli pesanti, riducendo il contributo emissivo di quasi il 30%, contro una crescita nell’area euro di oltre il 18%.
Il fisco penalizza i camion ‘più puliti’: un Tir Euro6 versa il triplo di ciò che dovrebbe sull’inquinamento prodotto, circa 7.900 euro in più all’anno. Una fiscalità più ragionevole incrementerebbe l’acquisto di mezzi più ‘green’.
Più del 70% dei flussi import/export tra Italia ed Europa passa per le Alpi, e ogni anno l’interscambio commerciale tra il nostro Paese e quelli del Corridoio Scandinavo-Mediterranea, di cui il Brennero è parte fondamentale, supera i 200 miliardi di euro. L’84% dell’interscambio dell’Italia con l’Europa a 28 avviene su gomma: con le limitazioni volute dall’Austria la nostra economia paga più di 370 milioni di euro all’anno per ogni ora di ritardo dei Tir nell’attraversamento del valico.
È quanto emerge dal Rapporto dell’Ufficio Studi di Confcommercio sui trasporti e la sostenibilità e dal documento dell’Isfort sul sistema dei trasporti in Italia presentati oggi a Cernobbio al 5° Forum Internazionale di Conftrasporto-Confcommercio.
L’attenzione verso l’ambiente impone una valutazione pragmatica dell’efficacia delle politiche adottate finora per promuovere i trasporti sostenibili, definendo un nuovo paradigma per la mobilità sostenibile. Lo sblocco dei cantieri e un maggiore equilibrio fiscale avvierebbero una ‘crescita felice’ e ci renderebbero attori, anziché spettatori, degli scambi tra le aree continentali che nell’ultimo decennio sono raddoppiati.
Ma questa crescita non riusciamo ad agganciarla perché scarseggiano assi e nodi di collegamento efficaci fra i territori e verso l’Europa. Abbiamo i progetti e – per diverse opere – anche i finanziamenti.
Ciò che manca è la capacità di spendere le risorse appostate soprattutto per le grandi opere. Un esempio?
Nel 2018 il ministero delle Infrastrutture non ha speso il 60% dei fondi che aveva in bilancio (5,7 miliardi di euro). Criticità anche nella capacità di spesa dei fondi strutturali europei: a poco più di un anno dalla fine del periodo di programmazione, per il PON (Programma Operativo Nazionale) Infrastrutture e reti è stato speso solo il 23% delle somme disponibili.
E poi ci sono i tempi. Quando finalmente partono i lavori di realizzazione, prima che siano conclusi passano fra i 5 e i 14 anni in media. Biblici i tempi per il Passante di Mestre (20 anni) e per la variante di valico dell’autostrada A1 (30 anni). Insomma, i cantieri per le infrastrutture che dovranno favorire il trasferimento delle merci dalla strada al mare e alla rotaia, in un’ottica di sostenibilità, stanno praticamente a zero.
Eppure, se il Sistema Nazionale Integrato dei Trasporti (Snit) – programmato nel 2001 con visione sostenibile e aggiornato nel 2016 – fosse completato nei tempi previsti (10 anni), contribuirebbe a un incremento del Pil del 2,5% e all’avvio di 300mila posti di lavoro all’anno, tra diretti, indiretti e indotti.
Il problema dell’Italia quindi non sta tanto, o almeno non solo, nell’insufficienza quantitativa delle reti, quanto nell’effettiva capacità del sistema di assicurare collegamenti rapidi a territori, mercati di sbocco, grandi metropoli dentro il Paese e verso l’Europa. Nell’accessibilità, cioè nei tempi di percorrenza fra territori con le diverse modalità di trasporto, l’Italia è ultima nella classifica dei maggiori Paesi europei.
A pagare lo scotto di questa inerzia è tutta l’economia, a partire dal sistema dei trasporti, che deve parare i colpi di falsi miti e di una concorrenza distorta che, oltretutto, non giova nemmeno all’ambiente.
Lo squilibrio fiscale in atto nell’autotrasporto dice che l’automatismo del ‘chi più inquina più paga’ è lungi a venire, ed è stravagante il caso dei Tir, dove il conto più salato lo pagano i mezzi più ‘puliti’.
Quelli di ultima generazione (Euro6) sborsano infatti un’accisa più che tripla rispetto al dovuto: nel solo 2019, hanno versato 7.892 euro in più rispetto al danno ambientale prodotto. Su tutti i veicoli circolanti, il conto è di 1,12 miliardi di euro di eccesso di imposizione falsamente ambientale. Così si deprimono gli investimenti sui nuovi mezzi e l’efficienza dei fattori di produzione.
Intanto l’Italia dei trasporti si sta dimostrando verso l’ambiente più virtuosa di molti Paesi europei: in 27 anni ha ridotto le emissioni di GHG (emissioni responsabili dell’effetto serra) del 2,7%, contro un aumento medio del 15% dell’eurozona.
La sorpresa è che nello stesso periodo i veicoli pesanti in Italia hanno ridotto il contributo emissivo di quasi il 30%, contro una crescita di oltre il 18% nell’area euro.
I dati che vincono sui luoghi comuni ci dicono che in Italia, i Tir pesano sulle emissioni di GHG totali solo per il 4,5%, mentre nell’eurozona la loro percentuale è del 5,9%.
Occorrerebbe forse aggiustare il tiro e concentrarsi su altri settori: quello dei rifiuti in Italia, ad esempio, ha aumentato le emissioni del 5%, mentre l’eurozona le ha ridotte di quasi il 35%
è bene ricordare che per effetto dei nuovi standard di omologazione europei, le emissioni inquinanti dei veicoli pesanti nel passaggio dal 1990 al 2016 si sono dimezzate per gli ossidi di azoto e addirittura ridotte del 70% per le polveri sottili. Considerando che circa il 62% del parco circolante dei Tir in Italia è di categoria emissiva ante-euro4, le possibilità di successo di politiche per la sostenibilità centrate sul rinnovo del parco sono consistenti, e da non farsi sfuggire sotto l’ondata emotiva di criminalizzazione del diesel.
Perfino l’Agenzia europea sull’ambiente sfata il mito dell’elettrico, quando afferma che un veicolo elettrico in tutto il ciclo di vita può produrre più danni all’ambiente – produzione esercizio (compresa ricarica), smaltimento – rispetto a un veicolo diesel. L’indicatore-standard degli impatti sulla salute umana di un veicolo elettrico è più che triplo rispetto a quello di un veicolo diesel.
Senza considerare i costi di ricarica: nelle colonnine stradali sono ben superiori rispetto alla pompa tradizionale. Di qui l’esigenza di non seguire una sola strada per la sostenibilità dei trasporti, ma di utilizzare tutte le tecnologie disponibili in maniera neutrale.
Un’altra ‘croce’ è il dumping sociale legato all’enorme disparità delle condizioni di lavoro e di composizione della busta paga dei conducenti dei camion. Nel trasporto internazionale, un’ora di guida sulla stessa strada e con le stesse merci può costare 8, 28 o 33 euro a seconda che il conducente lavori per una società bulgara, una italiana o una belga. Nel frattempo, sulle nostre strade ‘marciano’ mezzi altamente inquinanti di imprese straniere che viaggiano con regole meno restrittive di quelle italiane anche in tema ambientale.
Fanno male all’ambiente e all’economia anche le limitazioni ai Tir al Brennero. L’interscambio commerciale del nostro Paese con l’Europa (EU28) ammonta a circa 500 miliardi di euro all’anno.
Secondo i dati di Uniontrasporti-Unioncamere, il 70% dei flussi import/export Italia-Europa passa attraverso le Alpi, e il Brennero, da solo, assorbe un quarto dei transiti. L’interscambio commerciale tra il nostro Paese e quelli del corridoio scandinavo-mediterraneo, di cui l’asse del Brennero è un segmento fondamentale, supera i 200 miliardi di euro l’anno.
In barba ai principi che l’hanno ‘ispirata’, l’Austria non considera che un Tir con merce deperibile fermo inquina molto più di uno in movimento. Ora invece sa bene che, chiudendo le porte alla libera circolazione di mezzi, mette a rischio almeno 30 miliardi di euro all’anno di esportazioni (quasi due punti di Pil) e viola un principio sancito dall’Ue. Per ogni ora di ritardo nell’attraversamento del Brennero, la nostra economia paga più di 370 milioni di euro all’anno.
Alternative alla strada per ora non ce ne sono (la risposta ferroviaria sarà attiva solo fra 10 anni) e, in assenza di investimenti, trasportare anche una piccola quantità delle merci dalla gomma al ferro intaserebbe tutto il sistema.
Se il quadro rimanesse invariato, dovremmo abbandonare non solo l’ambizione di diventare un Paese logistico, ma anche quella di poter partecipare ai traffici internazionali, che potrebbero essere costretti a deviare i propri percorsi lungo assi più agevoli e convenienti.
Una prospettiva di isolamento legata al blocco di progetti infrastrutturali a lungo attesi (Terzo Valico, Gronda di Genova, Torino-Lione, Pedemontana lombarda, collegamento ferroviario alta velocità Brescia-Padova) che Conftrasporto-Confcommercio intende scongiurare con tutte le energie.
Le nostre priorità sono:
- Rivedere la normativa (Codice appalti) e semplificare le procedure per lo sblocco dei cantieri Da “Connettere l’Italia” a “Italia (finalmente) connessa”;
- Promuovere la sostenibilità in tutte le sue dimensioni: ambientale, economica, sociale. Dal catalogo dei sussidi dannosi per l’ambiente al catalogo dei sussidi dannosi per la sostenibilità;
- Migliorare l’accessibilità della barriera alpina completando gli interventi di potenziamento delle infrastrutture di attraversamento, e contrastando ogni politica di contingentamento unilaterale dei transiti su gomma (attuale caso Brennero).
- Sviluppare l’intermodalità attraverso incentivi, di facile implementazione, che promuovano la scelta della via del mare e di quella ferrata da parte degli autotrasportatori;
- Premiare i veicoli meno inquinanti rivedendo le regole di circolazione e dei sussidi per l’autotrasporto; istituire un fondo nazionale per incentivare il rinnovo del parco circolante dei veicoli merci più inquinanti con mezzi più puliti e avanzati tecnologicamente, nel rispetto del principio della neutralità tecnologica;
- Garantire una transizione energetica sostenibile sotto tutti i punti di vista, attraverso l’utilizzo di più fonti energetiche. In particolare, il settore dei trasporti, sia marittimi che terrestri, necessita di un mix attento e bilanciato di combustibili per la transizione come GPL, GNL, biocarburanti e biometano adeguato a favorire le politiche climatiche e a procedere verso un mercato energetico che tenda sempre più alla riduzione delle emissioni;
- Sviluppare l’infrastruttura per i combustibili alternativi, per centrare gli obiettivi di diffusione fissati dalla Direttiva DAFI e rendere la mobilità sostenibile una reale opportunità, a cominciare dall’utilizzo del GNL nel trasporto marittimo e su gomma. Snellire i procedimenti di autorizzazione degli impianti di logistica energetica, con un quadro omogeneo sul territorio e ispirato a criteri di semplificazione e chiarezza;
- Contrastare ogni forma di concorrenza sleale e dumping sociale nell’autotrasporto a livello europeo, sostenendo le indicazioni della Road Alliance;
- Rifinanziare il regime dei benefici contributivi per i marittimi imbarcati sulle navi che collegano le isole minori, per favorire l’occupazione dei lavoratori nazionali.