Alla luce dei primi risultati provvisori, l’anno appena concluso non risulta contrassegnato, per quanto concerne il quadro demografico nazionale, da significativi cambiamenti, inversioni di tendenza o improvvisi quanto temporanei shock di periodo.
Il 2019 è, infatti, un anno nel quale le tendenze demografiche risultano da un punto di vista congiunturale in linea con quelle mediamente espresse negli anni più recenti.
Le evidenze documentano ancora una volta bassi livelli fecondità, un regolare quanto atteso aumento della speranza di vita, cui si accompagna, come ormai di consueto, una vivace dinamica delle migrazioni internazionali.
Il riflesso di tali andamenti demografici comporta nel complesso un’ulteriore riduzione della popolazione residente, scesa al 1° gennaio 2020 a 60 milioni 317mila. La popolazione, che risulta ininterrottamente in calo da cinque anni consecutivi, registra nel 2019 una riduzione pari al -1,9 per mille residenti.
La riduzione si deve al rilevante bilancio negativo della dinamica naturale (nascite-decessi) risultata nel 2019 pari a -212mila unità, solo parzialmente attenuata da un saldo migratorio con l’estero ampiamente positivo (+143mila). Le ordinarie operazioni di allineamento e revisione delle anagrafi (saldo per altri motivi) comportano, inoltre, un saldo negativo per 48mila unità. Nel complesso, pertanto, la popolazione diminuisce di 116mila unità.
In crescita demografica solo alcune regioni del Nord
Il calo della popolazione si concentra prevalentemente nel Mezzogiorno (-6,3 per mille) e in misura inferiore nel Centro (-2,2 per mille). Al contrario, prosegue il processo di crescita della popolazione nel Nord (+1,4 per mille).
Lo sviluppo demografico più importante si è registrato nelle Province autonome di Bolzano e Trento, rispettivamente con tassi di variazione pari a +5 e +3,6 per mille. Rilevante anche l’incremento di popolazione osservato in Lombardia (+3,4 per mille) ed Emilia-Romagna (+2,8).
La Toscana, pur con un tasso di variazione negativo (-0,5 per mille), è la regione del Centro che contiene maggiormente la flessione demografica e comunque l’ultima a porsi sopra il livello di variazione medio nazionale (-1,9).
Totalmente contrapposte le condizioni di sviluppo demografico nelle quali versano le singole regioni del Mezzogiorno, la migliore delle quali – la Sardegna – viaggia nel 2019 a ritmi di variazione della popolazione pari al -5,3 per mille. Particolarmente critica, infine, la dinamica demografica di Molise e Basilicata che nel volgere di un solo anno perdono circa l’1% delle rispettive popolazioni.
Il ricambio naturale della popolazione appare sempre più compromesso
Nel 2019 si registra in Italia un saldo naturale pari a -212mila unità, frutto della differenza tra 435mila nascite e 647mila decessi. Preannunciato dall’antitetica dinamica prospettiva di nascite e decessi nell’ultimo decennio, si tratta del più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918. Ciò comporta che il ricambio per ogni 100 residenti che lasciano per morte sia oggi assicurato da appena 67 neonati, mentre dieci anni fa risultava pari a 96.
L’analisi in serie storica delle nascite pone in evidenza come il dato relativo al 2019, appena 435mila, risulti il più basso mai riscontrato nel Paese. Per contro, il numero dei decessi, 647mila, pur di poco inferiore al record riscontrato nel 2017 (649mila), rispecchia in pieno le tendenze da tempo evidenziate. Nel lungo termine, i guadagni conseguiti di sopravvivenza allargano la base di coloro che vivono molto più a lungo di un tempo e fino alle età più avanzate dell’esistenza, portando a far crescere il numero annuale di decessi e accentuando oltremodo, in senso fortemente negativo, il bilancio del saldo naturale.
Pur nella varietà dei diversi contesti territoriali, più o meno marcati anche in relazione al diverso livello di invecchiamento, la dinamica naturale è ovunque negativa, eccezion fatta per la Provincia di Bolzano, l’unica dove il ricambio della popolazione risulta ancora più che in equilibrio (+1,3 per mille residenti).
Più che positivo, sebbene in calo, il saldo migratorio con l’estero
Il saldo migratorio con l’estero nel 2019 risulta positivo per 143mila unità, in virtù del fatto che a fronte di 307mila iscrizioni anagrafiche dall’estero si hanno solo 164mila cancellazioni. Il dato risulta in evidente calo se confrontato con quello del biennio precedente (in media oltre 180mila unità aggiuntive annue) e persino al di sotto della media degli ultimi cinque anni (+156mila).
Dal lato delle iscrizioni si assiste a una sostanziale riduzione del volume complessivo se confrontato con quello del biennio precedente, con 25mila ingressi in meno rispetto al 2018 e 34mila sul 2017. Parallelamente, si assiste a un nuovo rialzo delle cancellazioni per l’estero, il cui volume totale, sfiorando le 164mila unità, raggiunge il livello più alto da che sono disponibili statistiche omogenee sul fenomeno (1981).
Per quanto i movimenti con l’estero rappresentino un fondamentale stimolo per il ricambio demografico, anche a fronte del calo osservato nell’ultimo anno, va anche sempre sottolineato quanto differenziati siano gli schemi di comportamento tra cittadini italiani e non italiani. Infatti, i movimenti in ingresso sono per lo più dovuti a cittadini stranieri, 265mila, oltre 20mila in meno sull’anno precedente, ma in ogni caso preponderanti rispetto agli appena 43mila rimpatri di italiani, che a loro volta si riducono di circa 4mila unità. Sul versante dei movimenti in uscita, al contrario, la quota prevalente è da attribuire ai cittadini italiani, circa 120mila e 3mila in più sul 2018, mentre le emigrazioni di stranieri (certificate da una cancellazione anagrafica) riguardano soltanto 44mila individui (+4mila).
Il saldo migratorio netto generale della popolazione residente, pari a +143mila nel 2019, è dunque la somma di due componenti di segno opposto: l’una positiva per 220mila unità e dovuta alla popolazione straniera, l’altra negativa per 77mila unità e dovuta al comportamento migratorio degli italiani.
Sul piano territoriale, tutte le regioni sono interessate da saldi migratori con l’estero positivi, tuttavia in veste più accentuata nel Nord (3,1 per mille abitanti) e nel Centro (2,9 per mille), rispetto a un Mezzogiorno meno attrattivo (1,1 per mille). La regione con la più vivace dinamica per migrazioni internazionali è l’Emilia-Romagna (3,8 per mille), che precede Toscana (3,7) e Lombardia (3,5), mentre appaiate per livelli minimi risultano Sicilia e Sardegna (0,6 per mille).
Stabile il numero medio di figli per donna
Nonostante l’ennesimo record negativo di nascite, la fecondità rimane costante al livello espresso nel 2018, ossia 1,29 figli per donna. Ciò in quanto il numero annuale di nascite è vincolato non solo ai livelli riproduttivi delle madri ma anche alla loro dimensione assoluta e strutturale.
Nell’ultimo biennio, in particolare, tra le donne residenti in età feconda (convenzionalmente di 15-49 anni) si stima una riduzione di circa 180mila unità. In aggiunta a tale fattore va poi richiamato che i tassi specifici di fecondità per età della madre continuano a mostrare un sostanziale declino nelle età giovanili (fino a circa 30 anni) e un progressivo rialzo in quelle più anziane (dopo i 30). L’età media al parto ha toccato i 32,1 anni, anche perché nel frattempo la fecondità espressa dalle donne 35-39enni ha superato quella delle 25-29enni. Non solo, fanno più figli le donne ultraquarantenni di quanti ne facciano le giovani sotto i 20 anni di età mentre il divario con le 20-24enni è stato quasi del tutto assorbito.
Rilevante il contributo alla natalità delle immigrate
Circa un quinto delle nascite occorse nel 2019 è da parte di madre straniera. Tra queste, pari a un totale di 85mila, 63mila sono quelle prodotte con partner straniero (che quindi incrementano il numero di nati in Italia con cittadinanza estera), 22mila quelle con partner italiano. I nati da cittadine italiane sono invece 349mila, di cui 341mila con partner connazionale e circa 8mila con partner straniero.
Al pari di quella generale, la natalità risulta in calo per tutte le tipologie di coppia.
Le donne straniere, che usualmente evidenziano un comportamento riproduttivo più marcato e che sono favorite da una struttura per età più giovane, hanno avuto in media 1,89 figli (contro 1,94 del 2018). Le italiane, dal canto loro, con 1,22 figli sono rimaste all’incirca allo stesso livello dell’anno precedente (1,21). Nel frattempo, l’età media al parto sale di un ulteriore punto decimale sia per le straniere sia per le italiane. Le prime, abitualmente precoci, procreano in media intorno ai 29,1 anni di età. Le italiane, come noto più tardive, hanno come riferimento centrale i 32,6 anni.
Fecondità più alta al Nord
Nel 2019, come ormai da qualche anno, la fecondità più elevata si manifesta nel Nord del Paese
(1,36 figli per donna), ben davanti a quella del Mezzogiorno (1,26) e del Centro (1,25). Il primato della zona più prolifica spetta alla Provincia di Bolzano con 1,69 figli per donna, che precede Trento con 1,43. A parte queste due specifiche realità del Nord-est, la zona dove la propensione ad avere figli risulta più alta è nel triangolo Lombardia (1,36), Emilia-Romagna (1,35) e Veneto (1,32), evocando una discreta correlazione tra intenzioni riproduttive e potenzialità garantite da un maggior sviluppo economico e sociale di tali regioni.
La speranza di vita alla nascita si allunga di un mese
Nel 2019 migliorano le condizioni di sopravvivenza della popolazione e si registra un ulteriore aumento della speranza di vita alla nascita. A livello nazionale gli uomini sfiorano gli 81 anni, le donne gli 85,3. Per gli uni come per le altre l’incremento sul 2018 è pari a 0,1 decimi di anno, corrispondente a un mese di vita in più.
Dopo decenni di costanti e consistenti incrementi è da sottolineare, tuttavia, come la speranza di vita abbia iniziato a rallentare il suo ritmo di crescita. Il fenomeno è particolarmente accentuato tra le donne. Basti pensare che il genere femminile impiegò 18 anni, ovvero dal 1972 al 1990, per portarsi da 75 a oltre 80 anni di speranza di vita alla nascita. Invece, per raggiungere il successivo traguardo degli
85 anni occorse circa un quarto di secolo, dal 1990 al 2014. Venendo poi all’analisi di quanto avvenuto più di recente, nel solo decennio 2009-2019 le donne conseguono un incremento di sopravvivenza pari a 1,5 mesi in più all’anno, quando nel decennio precedente, 1999-2009, fu pari a 2,5.
Gli uomini presentano più ampi margini di guadagno in termini di sopravvivenza. Margini, peraltro, che finora hanno di fatto consentito loro di recuperare parte dello svantaggio sulle donne, oggi pari a 4,3 anni di speranza di vita in meno, contro i circa 7 di 40 anni fa. Tuttavia, anche per gli uomini i ritmi di crescita appaiono in calo; a fronte di un guadagno medio annuale di circa 3,5 mesi nel decennio
1999-2009, si è passati a 2,5 mesi all’anno nel decennio 2009-2019.
Si vive più a lungo nel Nord-est
Il rallentamento dei ritmi di crescita della speranza di vita non pregiudica comunque l’evidenza che vede l’Italia tra i Paesi a elevata longevità, in grado di segnare ogni anno nuovi record di sopravvivenza, quali quelli riscontrati nel 2019.
Particolarmente felice, sotto questo punto di vista, è la situazione che emerge un po’ in tutto il Nord-est, dove si riscontrano condizioni di sopravvivenza assai favorevoli. Gli uomini residenti in questa ripartizione geografica possono infatti contare su una speranza di vita alla nascita pari a 81,6 anni, le donne pari a 85,9. Il Mezzogiorno, al contrario, gode di condizioni di sopravvivenza meno favorevoli, in virtù di una speranza di vita alla nascita di 80,2 anni tra gli uomini e di 84,5 tra le donne. Intermedi e ravvicinati sono invece i livelli di sopravvivenza nel Nord-ovest e nel Centro, dove risulta identica la speranza di vita alla nascita per le donne (85,5) mentre leggermente favoriti risultano i residenti nel Centro per quanto concerne gli uomini (81,3 contro 81,1).
Il primato regionale tra gli uomini compete alla Provincia di Trento (82,2 anni), seguono Umbria (81,9), Marche (81,8) e Provincia di Bolzano (81,8). Trento rappresenta l’area più favorevole per la sopravvivenza anche per le donne, grazie a una vita media di 86,6 anni, dato che costituisce peraltro il più alto livello di speranza di vita alla nascita mai toccato nella storia del Paese per una singola regione.
Le migrazioni interne uno dei motivi dello spopolamento nel Mezzogiorno
Nel Mezzogiorno il bilancio demografico complessivo presenta per l’ennesima volta (dal 2014) segno negativo (-129mila residenti, pari al -6,3 per mille abitanti). A tale situazione concorrono sia le poste demografiche relative alla dinamica naturale (-2,9 per mille), sia soprattutto quelle relative alle migrazioni interne (-3,8 per mille).
Si conta, infatti, che nel corso del 2019 circa 418mila individui abbiano lasciato un Comune del Mezzogiorno quale luogo di residenza per trasferirsi in un altro Comune italiano (eventualmente anche dello stesso Mezzogiorno, ma in ogni caso diverso da quello di origine), mentre circa 341mila sono gli individui che hanno eletto un Comune del Mezzogiorno quale luogo di dimora abituale (eventualmente anche provenienti da altro Comune dello stesso Mezzogiorno). Tale dinamica sfavorevole ha generato, quindi, un saldo negativo pari a -77mila unità per il complesso della ripartizione, risultando peraltro accresciuto rispetto al -73mila occorso nel 2018.
La questione accomuna tutte le regioni del Mezzogiorno – singolarmente prese tutte presentano saldi migratori interni negativi – pur se all’interno di un contesto eterogeneo nel quale i margini di grandezza variano dal -1 per mille della Sardegna al -5,8 per mille della Calabria. Le regioni del Nord, dove globalmente si riscontra un tasso del +2,5 per mille, sono quelle a maggiore capacità attrattiva, rispetto a quelle di un Centro che nel complesso registra un +0,6 per mille. Sotto questo profilo, emergono flussi migratori netti molto positivi tanto nella zona nord-occidentale (Lombardia, +3 per mille), quanto soprattutto in quella nord-orientale e segnatamente nelle Province di Trento (+3,9) e Bolzano (+3,4) e in Emilia-Romagna (+3,7).
55 milioni i cittadini italiani residenti, 5,4 milioni gli stranieri
Al 1° gennaio 2020 gli stranieri residenti ammontano a 5 milioni 382mila, in crescita di 123mila unità (+2,3%) rispetto a un anno prima. Nel conteggio concorrono 220mila unità in più per effetto delle migrazioni con l’estero, 55mila unità in più per effetto della dinamica naturale (63mila nati stranieri contro appena 8mila decessi), 46mila unità in meno per effetto delle revisioni anagrafiche e, infine, 109mila unità in meno per acquisizioni della cittadinanza italiana.
La popolazione residente straniera costituisce dunque l’8,9% del totale (era l’8,7% un anno prima). Le regioni dove più forte è l’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti sono l’Emilia-Romagna (12,6%), la Lombardia (12,1%) e il Lazio (11,7%). Il peso percentuale della popolazione straniera risulta relativamente più basso nel Mezzogiorno (4,4% contro l’11% del Centro-nord); il minimo è in Puglia e Sardegna (3,5%). Peraltro, fatto pari a 100 il numero di residenti stranieri sul territorio nazionale, 58 risiedono nel Nord (di cui 23 nella sola Lombardia), 25 nel Centro e appena 17 nel Mezzogiorno.
Il ricambio demografico debole determina effetti soprattutto sulla popolazione di cittadinanza italiana, il cui ammontare continua a decrescere di anno in anno. In complesso gli italiani residenti ammontano a 54 milioni 935mila al 1° gennaio 2020, con una riduzione di circa 240mila unità (-4,3 per mille) sull’anno precedente. Per i cittadini italiani risultano ampiamente negative le principali poste demografiche: il saldo naturale (-267mila unità), il saldo migratorio netto con l’estero (-77mila) e il saldo per gli aggiustamenti di carattere anagrafico (-2mila). Parziale compensazione di tali diminuzioni deriva dalle sole acquisizioni della cittadinanza italiana (+109mila).
Con la sola eccezione del Trentino-Alto Adige, tutte le regioni sono interessate da un processo di riduzione della popolazione di cittadinanza italiana. La questione colpisce particolarmente regioni demograficamente depresse o a più forte invecchiamento. Come ad esempio la Basilicata (-11,3 per mille), il Molise (-10,4) e la Calabria (-9,1) nel Mezzogiorno, ma anche regioni nel Nord del Paese come la Liguria (-8,7).
Mezzogiorno più giovane ma a grandi passi verso un profilo per età più anziano
Come conseguenza delle dinamiche dell’ultimo secolo, la struttura per età della popolazione prosegue il suo lento ma costante scivolamento verso le età più anziane. In termini assoluti di confronto ciò si deve al fatto che la vita media si è fortunatamente allungata. Prendendo ad esempio in esame quanto accaduto solo negli ultimi dieci anni (benché le origini del processo, come detto, siano assai più remote) gli individui con 65 anni di età e oltre sono passati da 12,1 a 13,9 milioni, conseguendo pertanto una crescita di 1,8 milioni. Visto in termini relativi, e in tale analisi sono da considerare però anche gli effetti di un regime di fecondità decrescente, ciò porta gli ultrasessantacinquenni a rappresentare il 23,1% della popolazione totale al 1° gennaio 2020. Il 63,9% della popolazione, d’altro canto, ha età compresa tra 15 e 64 anni mentre solo il 13% ha meno di 15 anni.
Rispetto a 10 anni orsono le distanze tra le classi di età più rappresentative si sono ulteriormente allungate. La classe più anziana ha cumulato 2,7 punti percentuali in più rispetto al 2010 mentre, al contrario, le persone in condizione attiva o formativa sono rispettivamente scese di 1,6 e 1,1 punti percentuali.
Ancora nel 2020, il Mezzogiorno presenta una popolazione più giovane rispetto al Centro-nord. Ad esempio, la popolazione ultrasessantacinquenne incide per il 21,6% del totale, quando nel Nord e nel Centro risulta rispettivamente pari al 23,9% e al 23,8%. Così come, prendendo a riferimento un indicatore sintetico quale l’età media della popolazione, si può rilevare come per il Mezzogiorno (44,6 anni) risulti di oltre un anno e mezzo inferiore rispetto a quella del Centro-nord (46,2 anni). Ciononostante, si deve anche sottolineare che le distanze sono in progressiva riduzione. Nel 2010, infatti, il Mezzogiorno deteneva un’età media di oltre due anni e mezzo inferiore; il segno evidente che la recente dinamica demografica di questa ripartizione – bassa natalità, relativo minor impatto delle migrazioni con l’estero, fuga dei giovani verso il Centro-nord – sta alimentando oltre misura il processo di invecchiamento.