In Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea contro il 32,8% nell’Ue.

Le quote di laureati sono più alte al Nord (21,3%) e al Centro (24,2%) rispetto al Mezzogiorno (16,2%) ma comunque lontane dai valori europei. 

Ampia distanza dagli altri paesi europei anche nella quota di popolazione con almeno un diploma (62,9% contro 79,0% nell’Ue27).

La partecipazione degli adulti alla formazione è inferiore alla media europea, con differenze più forti per la popolazione disoccupata o con bassi livelli di istruzione.

Gap sempre ampio tra Italia e resto d’Europa sui livelli di istruzione

La quota di popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni in possesso di almeno un titolo di studio secondario superiore è il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese. Il diploma è considerato, infatti, il livello di formazione indispensabile per una partecipazione al mercato del lavoro con potenziale di crescita individuale.

In Italia, nel 2020, tale quota è pari a 62,9% (+0,7 punti rispetto al 2019), un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (79,0% nell’Ue27) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione. 

Anche la quota dei 25-64enni con un titolo di studio terziario in Italia è molto bassa, essendo pari al 20,1% contro il 32,8% nella media Ue27. Il dato 2020 conferma come la crescita della popolazione laureata in Italia sia più lenta rispetto agli altri paesi dell’Unione: l’incremento è di soli 0,5 punti nell’ultimo anno, meno della metà della media Ue27 (+1,2 punti) e decisamente più basso rispetto a quanto registrato in Francia (+1,7 punti), Spagna (+1,1) e Germania (+1,4)  (Figura 1).

Stabile il divario di genere a conferma dei più alti livelli di istruzione femminili

Nel 2020, la crescita dei livelli di istruzione delle donne è simile a quella maschile: +0,6 contro +0,7 punti, per la quota di popolazione con almeno un diploma; +0,6 contro +0,4 punti, per la popolazione laureata. Pertanto, si interrompe la dinamica di maggiore crescita che negli anni precedenti aveva caratterizzato l’istruzione femminile. 

Il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile: le donne con almeno il diploma sono il 65,1% e gli uomini il 60,5%, una differenza ben più alta di quella osservata nella media Ue27, pari a circa un punto percentuale. Le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%; il vantaggio femminile, ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue, non si traduce però in analogo vantaggio in ambito lavorativo.

Anche le donne straniere hanno un livello di istruzione più elevato rispetto alla componente maschile: cinque straniere su dieci possiedono almeno il diploma contro quattro uomini su dieci, il 14,3% di queste è laureato contro l’8,3% degli uomini.

LIVELLI DI ISTRUZIONE E DI PARTECIPAZIONE ALLA FORMAZIONE: I NUMERI CHIAVE. Anni 2008, 2014, 2018, 2019 e 2020, valori percentuali 

Livelli di istruzione della popolazione 2008 2014 2018 2019 2020 2020 – Ue27
Quota di 25-64enni con almeno un titolo secondario superiore 53,3 59,3 61,7 62,2 62,9 79,0
Quota di 25-64enni con un titolo terziario 14,3 16,9 19,3 19,6 20,1 32,8
30-34enni con istruzione universitaria  19,2 23,9 27,8 27,6 27,8 41,0
Giovani 18-24enni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione 19,6 15,0 14,5 13,5 13,1 9,9
Partecipazione degli adulti alla formazione  2008 2014 2018 2019 2020 2020 – Ue27
25-64enni che hanno avuto un’esperienza di apprendimento recente 6,3 8,1 8,1 8,1 7,2 9,2
Occupati 25-64enni che hanno avuto un’esperienza di apprendimento recente 6,5 8,8 8,7 8,7 7,6 9,5
Disoccupati 25-64enni che hanno avuto un’esperienza di apprendimento recente 6,3 5,4 5,0 5,0 4,4 10,5
Inattivi 25-64enni che hanno avuto un’esperienza di apprendimento recente 5,8 7,3 7,5 7,6 6,8 7,7

Resta forte il divario territoriale nei livelli di istruzione 

La popolazione residente nel Mezzogiorno è meno istruita rispetto a quella nel Centro-nord: il 38,5% degli adulti ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,2% ha raggiunto un titolo terziario. Nel Nord e nel Centro circa il 45% è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,3% e 24,2% rispettivamente nel Nord e nel Centro). Il divario territoriale nei livelli di istruzione è indipendente dal genere, sebbene più marcato per la componente femminile.

Nel 2020 le differenze territoriali nei livelli di istruzione sono del tutto simili a quelle dei due anni precedenti, sia per gli uomini che per le donne. Il divario territoriale resta dunque pressoché immutato per due anni consecutivi, mentre nel decennio 2008-2018 aveva registrato un aumento, in particolare tra la popolazione con titolo terziario.

I livelli di istruzione crescono in misura piuttosto simile nelle ripartizioni geografiche: la popolazione con almeno il diploma aumenta di +0,8 punti nel Nord, di +0,4 nel Centro e di +0,7 punti nel Mezzogiorno; stessa dinamica per la popolazione laureata che cresce rispettivamente di +0,6, +0,5 e +0,4 punti. 

Ancora in calo il livello di istruzione degli stranieri

Anche nel 2020 si conferma il calo del livello di istruzione degli stranieri che si contrappone alla progressiva crescita di quello dei cittadini italiani. Se nel 2008 la quota di popolazione con almeno un titolo secondario superiore era uguale per italiani e stranieri (di poco superiore al 53%), nel 2020 quella degli italiani è di 18 punti più elevata (64,8% contro 46,7%); la differenza è di 10 punti (era di soli 2 punti nel 2008) tra i laureati (21,2% contro 11,5%).

Il livello di istruzione degli stranieri si differenzia molto per cittadinanza. Nella comunità più consistente in Italia, quella dei rumeni, il 61% possiede almeno il diploma e circa l’8% è laureato. Tra le altre cittadinanze con maggiore presenza in Italia, l’ucraina ha i livelli di istruzione più elevati (il 22,5% è laureato), mentre i marocchini e i cinesi con almeno un diploma non superano uno su cinque e soltanto il 5% circa è laureato.

Il gap di cittadinanza nei livelli di istruzione è ampio anche nella media Ue, seppur con sostanziali differenze tra i paesi. Tuttavia, a differenza di quanto avviene nella media Ue e nei principali paesi europei, dove il livello di istruzione degli stranieri ha registrato importanti aumenti nel corso del tempo, in Italia la quota di stranieri con almeno un titolo di studio secondario superiore, stazionaria nel periodo 2008-2014, si è successivamente molto ridotta e la quota di chi ha un titolo terziario è rimasta invariata.

Ciò può trovare diverse ragioni connesse ai mutamenti nella geografia delle provenienze e delle destinazioni delle migrazioni, nelle differenti motivazioni alla migrazione e nelle politiche migratorie. Può influire certamente anche l’attrattività del paese in termini di opportunità lavorative offerte ai migranti e dunque la sua capacità di non restare, per i migranti più qualificati, solo un paese di transito migratorio. 

FIGURA 1. POPOLAZIONE DI 25-64 ANNI CON ALMENO UN TITOLO SECONDARIO SUPERIORE IN ITALIA, NELLA UE27 E NEI PIÙ GRANDI PAESI UE, PER TITOLO DI STUDIO E GENERE Anni 2014 e 2020, valori percentuali 

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Sempre lontani i target della Strategia Europa2020

La Strategia Europa2020 aveva tra i suoi target l’innalzamento della quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario, considerato un obiettivo fondamentale per una “società della conoscenza”.

In Italia, il valore di questo indicatore ha registrato negli anni una progressiva crescita, ma, nel 2020, per il secondo anno consecutivo risulta pressoché stabile al 27,8% (+0,2 punti rispetto al 2019). Il gap da colmare con la media europea (41,0%) e con gli altri grandi paesi dell’Unione (Francia, Spagna e Germania registrano quote pari al 48,8%, 44,8% e 36,3%, in crescita anche nell’ultimo biennio) è davvero molto ampio e negli anni non si è ridotto (Figura 2). 

La bassa quota di giovani 30-34enni con un titolo terziario risente anche della limitata disponibilità di corsi terziari di ciclo breve professionalizzanti che in Italia sono erogati dagli Istituti Tecnici Superiori e che in alcuni paesi europei, in particolare, in Francia, Spagna e Regno Unito, rappresentano – nella classe di età 30-34 anni- una parte importante dei titoli terziari conseguiti (rispettivamente il 32%, il 29% e il 14%). 

Relativamente alle differenze di genere, in Italia è laureata una giovane su tre (34,3%) contro un giovane su cinque (21,4%). Il divario con l’Europa è maggiore per i ragazzi, nonostante anche in media europea la quota di laureate (46,1%) sia superiore a quella dei laureati (36,0%). 

Il divario con la media europea è inoltre ancora più marcato e in deciso aumento se si considerano i giovani di cittadinanza straniera. In Europa, infatti, la quota di laureati è in progressivo aumento mentre in Italia è sostanzialmente stabile dal 2008.

Va tuttavia sottolineato che la stabilità della quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario osservata negli ultimi due anni è sintesi di un aumento nel Centro (dovuto alla componente femminile), di una diminuzione nel Nord e di una sostanziale stabilità nel Mezzogiorno. 

Il divario territoriale a sfavore del Mezzogiorno resta molto marcato, dopo aver registrato un forte aumento nel decennio 2008-2018. Solo un quinto dei giovani è laureato (21,3%), contro il 31,3% del Nord e il 32,0% del Centro.

Queste disuguaglianze territoriali, da una parte, sottolineano le criticità nel perseguire gli obiettivi di equità nel raggiungimento di adeguati livelli di istruzione, fondamentali a garantire cittadinanza attiva e congrue opportunità di accesso al lavoro; dall’altra, pongono in evidenza come la ripresa del Mezzogiorno non possa prescindere da un’offerta di lavoro qualificata e pronta alle sfide tecnologiche e produttive di una società in rapido mutamento. 

FIGURA 2. GIOVANI 30-34ENNI CON TITOLO DI STUDIO TERZIARIO IN ITALIA, NELLA UE27 E NELLE RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE, PER GENERE. Anni 2008, 2018, 2020, valori percentuali

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La quota di laureate in discipline STEM è la metà di quella maschile

Nel 2020, il 24,9% dei laureati (25-34enni) ha una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche; le cosiddette lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Il divario di genere è molto importante, se si considera che la quota sale al 36,8% tra gli uomini (oltre un laureato su tre) e scende al 17,0% tra le donne (una laureata su sei) (Figura 3). La quota di laureati in discipline STEM è simile nel Centro e nel Mezzogiorno (23,7% e 23,0%, rispettivamente), mentre è più elevata (26,6%) nel Nord.

Le differenze territoriali aumentano notevolmente se si osserva la componente maschile: la quota di laureati STEM tra i giovani uomini residenti nel Nord è elevata (42,8%) e decisamente superiore a quella nel Centro e nel Mezzogiorno (32,4% e 29,2% rispettivamente). Tra le donne, invece, la quota di laureate STEM nel Nord è di qualche punto inferiore a quelle del Centro e del Mezzogiorno. Ne consegue che la differenza di genere nella quota di laureati in discipline tecnico-scientifiche è massima nel Nord, pari a 27,7 punti, e scende a 14,1 nel Centro e a 10,1 punti nel Mezzogiorno.

La quota di 25-34enni con un titolo terziario nelle discipline STEM in Italia è simile alla media Ue22 (i paesi dell’Unione europea membri dell’OCSE, 25,4% nel 2018) e al valore del Regno Unito (23,2%), è invece inferiore al valore di Francia (26,8%) e Spagna (27,5%) e piuttosto distante dalla Germania (32,2%). Tale risultato è tuttavia conseguenza di quanto osservato per la componente maschile: in tal caso il divario varia dai 6 punti con la media Ue22 e con il Regno Unito ai 13 punti con la Germania.

Per la componente femminile, invece, l’incidenza delle discipline STEM in Italia è persino superiore a quella registrata nella media Ue22 e negli altri grandi paesi europei. Questo risultato deriva dal maggior peso relativo di lauree STEM nell’area disciplinare di scienze naturali, matematica e statistica, ma anche di ingegneria. I divario di genere nella scelta delle discipline tecnico-scientifiche è dunque meno marcato in Italia rispetto al resto d’Europa.

FIGURA 3. LAUREATI DI 25-34 ANNI NELLE DISCIPLINE STEM, PER GENERE E RIPARTIZIONE GEOGRAFICA. Anni 2008, 2014, 2020, valori percentuali

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Sempre alta in Italia la quota di giovani che abbandonano gli studi 

Ormai da molti anni una delle priorità dell’Unione europea nel campo dell’istruzione e della formazione è la riduzione dell’abbandono scolastico, che ha gravi ripercussioni sulla vita dei giovani e sulla società in generale.

In Europa, il fenomeno è misurato dalla quota di 18-24enni che, in possesso al massimo di un titolo secondario inferiore, è fuori dal sistema di istruzione e formazione (Early Leavers from Education and Training, ELET). Questo indicatore è stato uno dei benchmark della Strategia Europa2020 che ne fissava il valore target europeo al 10%, ridotto al 9% entro il 2030 (“Risoluzione del Consiglio su un quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione verso uno spazio europeo dell’istruzione e oltre (2021-2030)” – 2021/C 66/01).

In Italia, nel 2020 la quota di giovani che hanno abbandonato gli studi precocemente è pari al 13,1%, per un totale di circa 543 mila giovani, in leggero calo rispetto all’anno precedente. Nonostante l’Italia abbia registrato notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, la quota di ELET resta tra le più alte dell’Ue. Nell’anno di chiusura della Strategia decennale dell’Unione la percentuale è scesa infatti al 9,9% in media Ue27 (valore addirittura lievemente più basso del target prefissato), alla luce del fatto che la Francia ha raggiunto il valore target già da diversi anni e la Germania lo ha praticamente raggiunto nel corso del 2020 (Figura 4).

L’abbandono scolastico caratterizza i ragazzi (15,6%) più delle ragazze (10,4%) e per queste ultime si registra una diminuzione anche nell’ultimo anno (-1,1 punti). 

I divari territoriali sono molto ampi e persistenti. Nel 2020, l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale riguarda il 16,3% dei giovani nel Mezzogiorno, l’11,0% al Nord e l’11,5% nel Centro. Il divario territoriale tra Nord e Mezzogiorno si è ridotto a 5,3 punti nel 2020, grazie al calo registrato nel Mezzogiorno, dopo la sostanziale stabilità che aveva caratterizzato il quinquennio precedente (7,7 punti nel 2019).

Tra i giovani con cittadinanza non italiana, il tasso di abbandono precoce degli studi è più di tre volte superiore a quello degli italiani: 35,4% contro 11,0%. Peraltro, mentre tra il 2008 e il 2014 si era registrato anche tra gli stranieri un significativo calo degli abbandoni precoci, negli ultimi sei anni la riduzione coinvolge solo cittadini italiani. 

L’incidenza di abbandoni precoci tra gli stranieri nati all’estero varia molto a seconda dell’età di arrivo in Italia. Tra quelli arrivati entro i 9 anni di età, la quota è pari al 19,7%, sale al 33,4% tra coloro che sono giunti tra i 10 e i 15 anni e raggiunge il 57,3% per chi è entrato in Italia tra i 16 e i 24 anni.

FIGURA 4. GIOVANI DI 18-24 ANNI USCITI PRECOCEMENTE DAL SISTEMA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE IN ITALIA, NELLA UE27 E NEI PIÙ GRANDI PAESI EUROPEI. Anni 2008-2020, valori percentuali

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La condizione socio-economica della famiglia di origine influenza l’abbandono

La dispersione scolastica è fortemente condizionata dalle caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine. Incidenze molto elevate di abbandoni precoci si riscontrano quindi dove il livello d’istruzione e/o quello professionale dei genitori è basso (Figura 5).

L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda il 22,7% dei giovani i cui genitori hanno al massimo la licenza media, il 5,9% di quelli che hanno genitori con un titolo secondario superiore e il 2,3% dei giovani con genitori laureati. Similmente, se i genitori esercitano una professione non qualificata o non lavorano, gli abbandoni scolastici sono più frequenti (intorno al 22%) e si riducono se la professione del padre o della madre è altamente qualificata o impiegatizia (3% e 9%, rispettivamente).

Lo svantaggio dell’ambiente familiare sembra condizionare l’abbandono scolastico precoce dei giovani residenti più nelle regioni meridionali. Le quote di abbandoni tra i giovani con genitori di medio e alto livello di istruzione sono infatti piuttosto simili al Nord e nel Mezzogiorno mentre si registrano ampie differenze nel caso di genitori con al massimo la licenza media (25,5% nel Mezzogiorno contro 18,9% nel Nord).

Viceversa, il più elevato contesto socio-economico familiare appare meno efficace nel proteggere i giovani stranieri dall’abbandono degli studi. Nelle famiglie italiane con elevato livello di istruzione l’incidenza di giovani che hanno abbandonato gli studi precocemente è dieci volte inferiore rispetto a quella registrata nelle famiglie italiane con bassi livelli di istruzione, nelle famiglie straniere questa distanza è di appena tre volte.

FIGURA 5. GIOVANI 18-24ENNI CHE HANNO ABBANDONATO PRECOCEMENTE GLI STUDI PER TITOLO DI STUDIO DEI GENITORI, GENERE, RIPARTIZIONE GEOGRAFICA E CITTADINANZA. Anno 2020, valori percentuali

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Partecipazione degli adulti alla formazione più bassa della media europea

Il capitale umano di un individuo non si forma soltanto attraverso i percorsi educativi formali (scuola, università). L’apprendimento permanente durante tutto l’arco della vita (lifelong learning) assume dunque sempre maggiore rilevanza soprattutto alla luce dei cambiamenti nel mercato del lavoro, della mobilità lavorativa e dell’innovazione tecnologica. Questi fattori accrescono il rischio di un’obsolescenza delle competenze e richiedono continui adattamenti e riqualificazioni. Inoltre, la partecipazione ad attività formative durante tutto l’arco della vita favorisce la vita sociale degli individui, una cittadinanza attiva e la coesione sociale.

L’Europa ha posto come target della Strategia Europa2020 l’innalzamento ad almeno il 15% della quota di popolazione tra i 25 e i 64 anni che ha partecipato ad un’attività di istruzione e/o formazione recente (nelle quattro settimane precedenti l’intervista). Anche la nuova Agenda europea per le competenze fissa gli obiettivi in termini di apprendimento da conseguire entro i prossimi cinque anni, sottolineando l’importanza di accrescere la partecipazione alle attività formative e di garantire un’adesione socialmente equa, rivolgendo particolare attenzione agli adulti poco qualificati (con al più un titolo di istruzione secondaria inferiore) e ai disoccupati.

Nel 2020, la partecipazione degli adulti a un’esperienza di apprendimento recente in Italia è inferiore al valore medio dell’Ue27 (7,2% contro 9,2%) e a quello di Francia (13,0%), Spagna (11,0%) e Germania (7,7%). Dopo una stazionarietà protrattasi per diversi anni la quota risulta in calo di 0,9 punti anche per la pandemia Covid-19 e le relative misure di contenimento che hanno imposto chiusure e limitazioni agli spostamenti e alle attività. La flessione è stata tuttavia relativamente contenuta rispetto a quanto registrato nella Ue27 (-1,6 punti) e in alcuni Paesi, tra i quali la Francia (-6,5 punti).

Tra i fattori che più influenzano la partecipazione degli adulti alla formazione continua vi è il livello di istruzione posseduto. Nel 2020, l’incidenza del lifelong learning è pari al 16,9% tra chi ha un titolo terziario, si riduce al 7,6% tra i diplomati ed è solo dell’1,4% tra chi ha un basso titolo di studio (Figura 6). Quest’ultimo valore – pur minimo anche negli altri grandi Paesi – è decisamente più basso rispetto alla media europea, mentre gli altri valori sono piuttosto in linea. Eppure, un’ampia partecipazione alle attività formative, l’aggiornamento delle competenze e la riqualificazione professionale sarebbero necessarie per gli individui più vulnerabili, i quali con più difficoltà tengono il passo dell’innovazione tecnologica e delle trasformazioni da questa indotte. Inoltre, la formazione continua supplirebbe alla scarsa istruzione formale ricevuta, permettendo una crescita personale e una maggiore partecipazione alla vita sociale.

FIGURA 6. POPOLAZIONE TRA I 25 E I 64 ANNI CHE HA AVUTO UN’ESPERIENZA DI APPRENDIMENTO RECENTE IN ITALIA, NELLA UE27 E NEI PIÙ GRANDI PAESI EUROPEI,  PER TITOLO DI STUDIO. Anni 2019 e 2020, valori percentuali

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Minima la partecipazione dei disoccupati alla formazione continua

Nel 2020, la partecipazione in Italia al lifelong learning è minima tra i disoccupati e massima tra gli occupati (4,4% verso 7,6%,) mentre nel resto d’Europa è massima tra i disoccupati (10,5% rispetto a 9,5% degli occupati nella Ue27) (Figura 7). 

Il divario Italia-Europa è dunque massimo proprio per le persone disoccupate in età attiva (25-64 anni), (una delle popolazioni target dell’Agenda europea per le competenze) che devono riallocarsi nel mondo del lavoro e spesso hanno competenze acquisite lontano nel tempo e dunque più obsolete. Nondimeno, anche la partecipazione alla formazione della popolazione inattiva è importante per l’inclusione sociale e la qualità della vita; in Italia l’incidenza è del 6,8%, valore leggermente inferiore al valore medio Ue27 (7,7%) e a quelli di Francia, Spagna (oltre il 9%) e Germania (8,7%).

Maggiore partecipazione formativa delle donne 

La partecipazione alle attività formative è maggiore tra le donne (7,4% contro 7,0%) sia tra quelle occupate (8,8% contro il 6,7% degli uomini) che tra le disoccupate (5,3% contro 3,6%). Solo tra gli inattivi il divario di genere nel lifelong learning è a favore della componente maschile (9,3% contro 5,7%). Queste tendenze di genere sono in linea con la media europea.

La quota di popolazione che partecipa alla formazione continua è superiore nel Nord e nel Centro (8% e 7,8%) rispetto al Mezzogiorno (5,7%), anche per effetto del più basso livello di istruzione che mediamente caratterizza la popolazione in quest’area. Se, infatti, il confronto viene fatto a parità di livello di istruzione le differenze si attenuano in misura decisa.  

In Italia, nel 2020 è in formazione il 14,6% dei 25-34enni – l’alta partecipazione è legata all’istruzione formale ancora in fase di completamento – il 6,6% dei 35-44enni, il 5,6% dei 45-54enni e il 4,0% dei
55-64enni. A parità di livello di istruzione, la partecipazione nelle fasce d’età comprese tra i 35 e i 54 anni diventa simile mentre si conferma la minore partecipazione nella classe di età più matura 55-64 anni. 

L’impatto dell’emergenza sanitaria da Covid-19 sulla partecipazione alle attività formative è stato più forte tra le donne (-1,2 punti contro -0,7 punti negli uomini) in particolare tra quelle occupate o con titolo di studio medio-alto.

FIGURA 7. POPOLAZIONE TRA I 25 E I 64 ANNI CHE HA AVUTO UN’ESPERIENZA DI APPRENDIMENTO RECENTE IN ITALIA, NELLA UE27 E NEI PIÙ GRANDI PAESI EUROPEI PER CONDIZIONE OCCUPAZIONALE. Anni 2019 e 2020, valori percentuali

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Nell’apprendimento permanente prevalenti i motivi lavorativi

La quota di chi partecipa ad attività formative per ragioni professionali è pari all’84,1% e sale all’86,6% tra coloro che hanno un titolo di studio elevato; si attesta all’87,8% tra gli occupati mentre scende al 77,3% tra i disoccupati e al 46,5% tra gli inattivi.

L’incidenza delle ragioni professionali è in progressiva espansione dal 2014 ma è nel 2020 che si registra un aumento di oltre dieci punti soprattutto perché le limitazioni imposte dalla pandemia di COVID19 hanno condizionato di più la formazione per interesse personale rispetto a quella per motivi professionali (Figura 8).

Sull’apprendimento permanente gioca un ruolo importante il fatto che la formazione sia organizzata e/o finanziata dall’impresa presso la quale si lavora, come avviene per oltre la metà degli occupati in formazione (52,9%). 

Le quote, inoltre, diminuiscono all’aumentare del titolo di studio: 48,6% tra chi ha un alto titolo di studio, 56,4% tra chi ha un medio livello di istruzione e 59,8% tra chi ha un basso titolo. Ciononostante, le forti differenze nelle incidenze del lifelong learning per livello di istruzione, a vantaggio dei livelli di istruzione più elevati, confermano come la formazione sul luogo di lavoro sia fortemente centrata verso i profili professionali più alti e con più elevati livelli di istruzione. 

FIGURA 8. RAGIONI PROFESSIONALI NELLA PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DI FORMAZIONE, PER TITOLO DI STUDIO E CONDIZIONE OCCUPAZIONALE. Anni 2014-2020, incidenze percentuali

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Glossario

Disoccupati (o in cerca di occupazione): comprendono le persone non occupate tra i 15 e i 74 anni che: 

  • hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive; 
  • oppure, che inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbero disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro.

Early leavers from education and training – ELET: giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato studio e formazione con al massimo un titolo di studio secondario inferiore (nella Classificazione internazionale sui livelli di istruzione corrisponde fino al 2013 ai livelli 0-3C short della ISCED1997 e dal 2014 ai livelli 0-2 della ISCED2011). 

Esperienza di apprendimento recente: la partecipazione all’istruzione o alla formazione (formale o non formale) nelle 4 settimane precedenti l’indagine. Fonte: Rilevazione ISTAT sulle forze di lavoro.

Forze lavoro: comprendono le persone occupate e quelle disoccupate.

Inattivi (o non forze di lavoro): comprendono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate o disoccupate.  

Occupati: comprendono le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento: 

  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura; 
  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente; 
  • sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie o malattia). I dipendenti assenti dal lavoro sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi, oppure se durante l’assenza continuano a percepire almeno il 50% della retribuzione. Gli indipendenti assenti dal lavoro, ad eccezione dei coadiuvanti familiari, sono considerati occupati se, durante il periodo di assenza, mantengono l’attività. I coadiuvanti familiari sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi. 

Ripartizioni geografiche: Nord: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna. Centro: Toscana, Umbria, Marche, Lazio. Mezzogiorno: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna.

Titolo di studio al più secondario inferiore: comprende i titoli di istruzione fino alla scuola secondaria inferiore (diploma di scuola secondaria di I grado). Sono inclusi in questo gruppo anche coloro che, in possesso del diploma di scuola secondaria di I grado, hanno conseguito una qualifica professionale regionale di primo livello con durata inferiore ai due anni.

Titolo di studio secondario superiore: comprende i titoli di istruzione secondaria superiore e post secondaria non terziaria (diploma di scuola secondaria di II grado o una qualifica del sistema di istruzione e formazione). Per il sistema di istruzione italiano sono i seguenti: Diploma di qualifica professionale di scuola secondaria superiore di 2-3 anni che non permette l’iscrizione all’Università, Diploma di maturità/Diploma di istruzione secondaria superiore di 4-5 anni che permette l’iscrizione all’Università; Attestato IeFP di qualifica professionale (operatore)/Diploma professionale IFP di tecnico; Qualifica professionale regionale di primo livello con durata di almeno due anni; Qualifica professionale regionale post qualifica/post diploma di durata uguale o superiore alle 600 ore (almeno sei mesi); Certificato di specializzazione tecnica superiore (IFTS). 

Titolo di studio terziario: comprende i titoli Universitari, Accademici (AFAM), i Diplomi di tecnico superiore ITS e altri titoli terziari non universitari. Sono inclusi i titoli post-laurea o post-AFAM.